1.Gihà godeva a pieno di ogni momento della giornata e la sera preferiva andare su, nella testa della Fandimora, la quale fungeva da osservatorio astronomico. I muri tinteggiati in rosso cremisi erano tappezzati, infatti, da ingiallite mappe del cielo che aiutavano il suo sguardo a volare tra gli astri. In quella stanza aveva passato talmente tante notti in bianco a contemplare stelle, pianeti e satelliti che aveva deciso di trasformarlo anche nella sua camera da letto, dunque non c’è da meravigliarsi che fosse lì nel momento in cui questa storia ebbe inizio.

2.Gihà carpiva nella nebbiolina polverosa le sagome di una moltitudine di alberi altissimi, come le più nobili riflessioni, e legati saldamente alla terra, come la più antica delle tradizioni. Migliaia di GrampaBleu ricoprivano il cielo creando un tetto che sembrava essere composto di cotone in fiocchi.

Guardando in alto, l’attenzione veniva inevitabilmente catturata dal mastodontico e delicato spettacolo del folto fogliame; spostandosi in basso non si poteva fare a meno di restare stupiti dalle radici animate che entravano ed uscivano senza fatica dal sottobosco sconfinato. 

Ammirare la maestosità di Mabuela, immersa in un silenzio onirico sottolineato da qualche fruscio, dal canticchiare di qualche grillo e dal ruscellare di un fiume nei paraggi era sbalorditivo. Il guerriero era impressionato al punto da smettere di domandarsi in che modo fosse finito in quel luogo, cominciando a pensare che a volte bisogna perdersi per ritrovarsi.

3.Gihà era un giovane alto e snello, dai lineamenti particolarmente scolpiti e le guance evidenziate da triangolini carminio. La sua capigliatura, contraddistinta da ciuffi dritti dritti a sfidare la gravità, imbiancati sulle punte, rievocava una corona o uno di quei copricapi tribali piumati. Trattava i capelli con dell’argilla curativa e cingeva la fronte con una fascia abbellita da ematite, cristalli di rocca e una striscia di smalto vermiglio. Indossava abiti scuri con una corazza tono su tono e un gonnellino che lasciava, sul modello dei pterugi, libere le gambe, facilitandone i movimenti. Per finire, la silhouette longilinea era rafforzata da cavigliere, polsini e braccialetti di perle, nonché ravvivata da altri gioielli luccicanti, tra cui un pettorale nero niellato con paste vitree, onice e pietre dure incassate, variegato da rubini e abbinato ad un giro di quarzo chiaro.

4.La chioma si staccava dai GrampaBleu salendo in aria alla maniera di un grande paracadute argenteo, per poi scomporsi rilasciando tutte le foglie nel cielo, analoghe ai dischi aghiformi dei soffici fiori che si soffiano ricordando i sogni nel cassetto. – Voi li chiamate Denti di Leone… Sole e Luna nello stesso fiore. – Ebbene, quello che stava accadendo rievocava quel gioco, benché i rapporti smisurati tra le parti fossero ben diversi rispetto ai soliti. I GrampaBleu erano giganti? O tutto il resto si era rimpicciolito? – Chi può dirlo! Dovreste aver capito che a Mabuela tutto è possibile. – 

Una cosa, però, è certa… Gihà scoprì cosa significasse librarsi imitando quei piccoli ombrellini dei Grampableu che lo avevano tanto meravigliato.

5.KappiCappa, il destriero dall’elegante silhouette color caramello, aveva zampe esili e slanciate, orecchie sbarazzine, un irresistibile muso peloso come tutto il magnifico corpo, e due occhioni blu oltremare, incorniciati da ciglia lunghe, scure e flessibili, che rendevano il suo sguardo amorevole. Era impossibile non affondare le braccia sul morbido manto corto, escludendo la zona del collo lungo, – Oh! Quella sì che era una zazzera di grande stile! – o non scherzare dipingendo nell’acqua con la coda, che ricordava uno di quei pennelloni ben riposti nello studio della casetta a forma di elefante. KappiCappa era un cammello fuori dal comune.

6.L’Aurora Lunare era un cammino che guidava gli arditi viaggiatori e chi aveva il coraggio di affrontare l’ignoranza, o questo, almeno, riportavano le leggende dei viandanti di Kusababisha, ma con quel nastro scintillante lì di fronte a Gihà, continuare a considerarlo solo un racconto sarebbe stato ridicolo. Il bagliore emanato era delicato eppure penetrante, una luce mistica che passava dal verde brillante del Nord al turchese delle fate, infondendo fiducia e un senso di protezione. Quell’immensità splendente di speranza, che rimaneva l’ultima a morire anche nei foschi baratri, era una Gioia per gli occhi. L’Aurora Lunare ricorda che negli abissi più bui c’è il Sole ad aspettarci, pronto a cominciare la sua ascesa verso il cielo, proprio come successe a Gihà e all’inseparabile KappiCappa.

7.Ai Marzi piaceva bere una bevanda dissetante, molto famosa nelle Sette Contee, chiamata SciropPaya, tant’è che ne conservavano una modesta scorta nella cambusa del loro veliero, la Melissa Piperita.   

La SciropPaya deriva dal trattamento dei frutti succulenti color giallo-arancio che crescono vicino al mare, sotto il Sole cocente delle regioni nel sud. La raffinata tecnica di estrazione essenziale dei mastri Papay, nonché la magistrale stagionatura in botti di legno, la rendono un’indispensabile ingrediente da cucina ed una bibita onnipresente sulle tavole ed i banconi di Kusababisha. Le sere d’inverno la spillano spumeggiante e l’estate la “freezzano” per rinfrescare i pomeriggi assolati. Nonostante sia prelibata è bene non esagerare per non straLunare o sTrombettare.

8.Quello che all’inizio era solo un’alito di vento era ormai diventato un uragano che si attorcigliava su delle acque scurissime. Come Gihà sarebbe arrivato nel mezzo della tempesta per seguire la bambina era un enigma e il turbamento lo aveva lasciato in balia di quelle correnti.

Era inevitabile, tuttavia, tentare di domare quell’impeto e il guerriero non poteva certamente restare affetto da quel turbine di emozioni contrastanti… in fondo era sostenuto dalla ciurma al completo, che senso avrebbe avuto affliggersi ancora?

9.Gihà capì che non sarebbe stato lo scudo più grande o la corazza del metallo più resistente a salvarlo e a decidere l’esito della storia. 

Il suo respiro si acquietò, cominciò a rilassarsi e fece caso al paesaggio che lo circondava. Dalla distanza in cui erano, le Vette più Alte rievocavano le creste di un Drago azzurro nel cielo. Guardando in alto in quella direzione, opposta rispetto a quella da dove era venuto, il guerriero riconobbe le Profondità e si accorse di non voler restare in un tempo che non esisteva più. Voleva ritrovare il suo posto nel mondo. 

Spesso, stando troppo immersi nelle cose, le dimentichiamo nella loro interezza… Nella loro bellezza. E non può esserci Bellezza senza Amore.

10.Le montagne erano maestose e non c’era un altro aggettivo che potesse descrivere l’unicorno dalla regale criniera. Aveva un portamento solenne e, se non fosse stato per lo sguardo fiero, il guerriero l’avrebbe scambiato per un’idea cristallizzata in un’opera d’arte, una statua bellissima di marmo vibrante che accoglie la luce riverberandola al suo interno per poi restituirla, risuonandola in un’aura splendente e ben distinta dal resto. L’oro puro del corno, in contrasto con la particolare tonalità lilla del pelo, gli conferiva un aspetto nobile. La seta verde della criniera e della coda rifletteva splendente ad ogni movimento. L’Akilay era una creatura eterea e piena di grazia.

11.Gihà seguiva gli occhioni acquamarina di Giko che saltellava quasi a non interrompere una sorta di danza. Il candelabro che aveva in equilibrio sulla testa dislocava il bagliore di qua e di là, ma l’eco della sua voce restava limpido. L’umorismo dello sciamano smaterializzava qualsiasi aspettativa, o meglio, per quel mattacchione non esistevano ritardi e attese. Tutto accadeva quando sarebbe dovuto accadere. L’incertezza di Gihà non poteva che scemare di fronte ad un maestro del suo calibro.

12.L’ondeggiare delle braccia di Giko si rivelò ben presto la sinuosa ascesa del guerriero e del fido destriero su per la ciminiera, tra i rami che intessevano giochi architettonici, le abbondanti foglie, i pullulanti frutti blu e il proliferare di piante con fiori vivaci. 

Tralci, lamelle e spicchi cascavano rigogliosi come lunghi capelli verdeggianti, mogano e blu fiordaliso. Agavi avvolgenti e cactus spinosi spuntavano assieme ad altre specie tra gli articolati incastri di aloe e di corolle a raggiera. Le meravigliose fronde di quel prospero giardino a picco stavano annunciando a Gihà e KappiCappa che dopo aver attraversato la terra e il mare, era arrivato il momento dei cieli.

13.Le gambe gli tremavano e la sua mente si stava smarrendo. Aveva percorso miglia e miglia? O non si stava spostando affatto? Barcollò ed inciampò. Oscillò e barcollò. Ciondolò traballante ed esitò vacillante, intrappolato in quel limbo, seppur il compagno stesse provando a sostenerlo. Il fiato di Gihà si fece sempre più corto e la presa delle braccia si allentò. Svenne cadendo privo di conoscienza per poi essere risvegliato dal muso di KappiCappa che gli inumidiva il naso. 

14.Il rapporto con quelle entità generò dapprima un gran turbamento, poi Gihà venne pervaso da una nostalgica serenità. Effettivamente gli elefanti per lui rappresentavano la Fandimora, ma quell’immagine riportava ad un sentimento dell’ultraterreno altrettanto familiare.

La mutevolezza delle nuvole bianche e grigie emergeva con la stabilità di quelle enormi rocce in controluce, che nella loro trasparenza si manifestavano quasi fossero scolpite nel cielo stesso. Benché questo connubio sembrava doversi risolvere in un rombo, tutto tacque.

15.Il guerriero poteva riaprire una porta dimenticata – si può… è proprio così che funzionano le porte – oppure restare solo una maschera.

Cerchiamo di non dimenticare che il Vero Tesoro non giace mai lontano…

16.La combustione dell’Essenza di Blu aveva originato, tra vortici e spirali, piccole folgori che con entusiasmo fuoriuscivano dall’interno della lanterna. Le ondate luccicanti si sparpagliarono librandosi simili a polvere di stelle danzante e quando Gihà non fu più abbagliato, si accorse delle enormi iridi che sbirciavano quasi fossero dietro una serratura. 

Questi briosi esserini bifronte amanti della Musica erano i Pippiahi, simili a lucciole dallo sguardo talmente gioioso e carico di letizia che sorrideva. Erano tutt’occhi e svolazzavano in ogni dove a pioggia di luce per poi ricomporsi in forme dinamiche ad indicargli una direzione.

Nonostante volteggiassero a mezz’aria pieni di vitalità, i Pippiahi lasciavano delle particolari impronte sul terreno. Il guerriero infilò i suoi piedi nelle tracce uno dopo l’altro e, senza accorgersene, si ritrovò a camminare.

17.Gihà riconobbe nello sguardo da sfinge della bambina lo specchio dell’anima, profondo quanto la volta dove Nyota continuava a brillare oltre il mattino.

18.Ricomincerei questa storia per mille notti ancora, d’altronde la ripetizione è la madre dell’apprendimento, cantando di un giovanotto che abitava nelle quarta contea di Kusababisha, ma dato che tutto non si ripete allo stesso modo vi confiderò che il cucù nella sua stanza aveva svelato un altro minuto. 

Orione aveva annunciato la sua cintura luccicante, l’Orsa Maggiore aveva ripreso vigore mentre la Luna e Urano erano entrati nel Leone, quando una bottiglietta con una pergamena al suo interno ruzzolò da sotto il letto. 

Ma adesso poco importa, perché il “nobile” guerriero di nome Gihà viveva gioiosamente lì, nell’intrinseca bellezza dell’Ora, scorrendo serenamente come un GrampaBleu nell’immensità del firmamento.